martedì 12 marzo 2024

Buon pane, buon vino e cattiva gente è arrivato!


 Ed eccolo qua!

Il mio romanzo "Buon pane, buon vino e cattiva gente" è finalmente diventato reale.
Lo potete ordinare su tutti gli store online, in libreria e da domani anche sul sito di Marco Saya Editore, che ringrazio con tutto il cuore per averlo pubblicato.

Ovviamente fatemi sapere se vi è piaciuto.


giovedì 29 febbraio 2024

Buon pane, buon vino e cattiva gente

 



Non so se qui mi leggono persone diverse rispetto a quelle con cui interagisco sui social, quindi non so se ha senso spammare anche qui la notizia, ma nel dubbio...

Ricordo i primi tempi che scrivevo qui e tutti gli incoraggiamenti che spesso ho ricevuto sul provare a scrivere un romanzo, dal momento che era così evidente la mia passione per la scrittura, per i libri, il desiderio di raccontare, condividere, comunicare. 

In realtà ciò che mi ha sempre frenata dal farlo, a parte l'insicurezza, la paura di fallire di fronte a un obiettivo per me significativo per una serie di ragioni, era soprattutto la mancanza di una storia. O meglio, di storie da raccontare in testa ne avevo tante, ne ho tante perché la creatività non mi manca, ma nessuna di queste aveva un'urgenza e io sono una di quelle persone che scrive solo se davvero sente di voler dire qualcosa.

Poi in questi anni, complici alcuni miei percorsi riguardo tematiche di cui ho parlato spesso anche qui nel blog, ho capito che in fondo c'era una storia che chiedeva di essere scritta perché poteva diventa una testimonianza. 

E quindi, vi presento in anteprima la copertina e il retro del mio romanzo che uscirà a breve (vi dirò poi da quando sarà ordinabile in libreria e on line) e vi riporto il testo di accompagnamento che ho scritto ieri su Fb per farvi capire meglio di che si tratta e la sinossi:

Con tanta emozione e un miscuglio di sensazioni difficili da decifrare, sono pronta a condividere con voi l'anteprima della copertina e del retro del mio romanzo che sarà pubblicato a breve da Marco Saya Editore.

È difficile lasciar andare una storia così, personale, intima, fortemente autobiografica, ma ci riesco proprio perché ora so che l'ho trasformata davvero in un romanzo, quindi Vera, la protagonista, me stessa nelle intenzioni, nel momento in cui ha preso vita sul pc è diventata anche immediatamente altro. E questo filtro che è dato dalla narrazione, e dalla finzione che sempre la accompagna, è anche ciò che ora mi consente finalmente di prenderne congedo, seppur con immenso affetto.

Vai Vera, entra nelle case degli altri e racconta la tua storia, a chi vorrà sentirla. Raccontagli di quell'estate e di come poi sei tornata a riprenderti con orgoglio quello che ti era stato sottratto: la dignità.

Questa è la sinossi, poi nei giorni prossimi magari posterò anche qualche estratto: "È l’estate del 1984. In un paesino del Lazio al confine con la Toscana, la quattordicenne Vera sperimenta la libertà insieme alla cugina Clara. La madre assume psicofarmaci come se fossero caramelle, il padre sta fuori con gli amici e rientra all’alba, le due cugine ne approfittano per star fuori fino a tardi. Le ragazze serie però rientrano a casa presto e così intorno a Vera e Clara iniziano a circolare voci, pettegolezzi, diventano oggetto di scherzi sempre più pesanti, fino alla sera in cui mentre in cielo esplodono i fuochi d’artificio accade un fatto cui Vera non riesce nemmeno a dare un nome. “Buon pane, buon vino e cattiva gente” è un romanzo di formazione postuma, sull’ingenuità adolescenziale e sui bravi ragazzi che se ne approfittano. Quando Vera tornerà al paese per due ragioni ben precise dopo decenni sarà finalmente in grado di dare un nome a quanto avvenuto quella notte, pronta non solo a elaborare il suo passato ma anche a lottare per una causa importante, quella della liberazione animale che in qualche modo sente affine a quanto le è capitato."

martedì 6 febbraio 2024

Un tempo non era così e altre amenità che riguardano la cultura patriarcale, e in più una notizia

 Quando si leggono le notizie di molestie e violenza sulle donne (vedasi altro orribile caso della ragazzina di 13 anni stuprata a Catania da un gruppo di sette ragazzi), puntualmente alcun* commentano dicendo che un tempo questi orrendi fatti accadevano meno e che oggi i ragazzi sono peggiorati ecc. 

Non è così. Le violenze e molestie sessuali ci sono sempre state, solo che un tempo, nella stragrande maggioranza dei casi, non venivano nemmeno denunciate per una serie di motivi, il che contribuiva a dare una percezione più limitata del fenomeno.

Provo ad elencarne alcuni: 

Fino al 1996 lo stupro non era considerato reato contro la persona, ma solo offesa al pubblico pudore. Figuriamoci molestie o altri tipi di abusi di natura sessuale.

La mentalità era ancora più maschilista di adesso; se una ragazza veniva stuprata o fatta oggetto di violenza sessuale si pensava che se la fosse andata a cercare, che fosse "merce avariata", che stesse esagerando, che fosse consenziente, che non avesse espresso in maniera abbastanza decisa il suo "no", anche perché molte cose non si sapevano e non interessava saperle: per esempio oggi la psicologia che studia le violenze, e i traumi che ne conseguono, dichiara che quando avvengono fatti simili subentra la reazione chiamata "freezing", cioè la vittima si ammutolisce e si blocca, anche per istinto di sopravvivenza nella paura che oltre all'abuso sessuale possa venire picchiata e uccisa. 

Le famiglie spesso ripudiavano le figlie stuprate o abusate perché c'era il mito della verginità, dell'arrivare illibate al matrimonio. 

Le donne vittime di violenza, in alcuni contesti e situazioni, specialmente in passato, quando c'era meno o zero consapevolezza femminista, non di rado provano un sentimento orrendo: di esserselo in qualche modo meritato, di aver fatto qualcosa che ha incoraggiato gli aguzzini e questo le fa sentire sporche e le dissuade dal denunciare. 

Su questi argomenti, che come sapete mi stanno molto a cuore, ho scritto un romanzo, il mio primo romanzo, che uscirà a breve. 🙂

Ci tengo moltissimo e non solo perché è parecchio autobiografico, ma anche perché si interseca con la tematica antispecista. È una storia di formazione. 

Vi dirò di più nelle prossime settimane, titolo, casa editrice, sinossi, magari vi posto qualche estratto.


venerdì 2 febbraio 2024

Io Capitano

 


E mentre tutti vanno a vedere e scrivono di Povere Creature, io recupero film di qualche mese fa (pure perché qui a Viterbo non ci sono più cinema, fatto che mi rattrista molto, e quindi per vedere i film che mi interessano devo aspettare che escano su qualche piattaforma digitale). 

Io Capitano di Matteo Garrone, candidato all'Oscar 2024, presentato a Venezia lo scorso anno. 

Garrone fa un po' sempre lo stesso film, e lo fa bene, ossia si trova a suo agio nel raccontare delle favole o dei racconti epici e anche Io Capitano non fa eccezione: si tratta di una storia in cui c'è l'eroe, ci sono gli antagonisti feroci, ci sono gli aiutanti, i comprimari che nel corso del viaggio daranno una mano al nostro eroe, c'è il male e il bene e infine l'inevitabile lieto fine. 

L'eroe che si allontana da casa insieme al cugino, una casa dove tutto sommato, a differenza di altre situazioni nel mondo (perché a Garrone non interessa raccontare la realtà, le guerre ecc., ma il viaggio dell'eroe) non stava poi così male, dove aveva affetti, una famiglia amorevole, sicurezza e protezione - raccontata a tinte vivaci, colori accesi, da tenere a mente i bellissimi primi piani in cui Seydou, il nostro eroe, si appoggia alla parete di un bel verde brillante della sua cameretta mentre pensa il suo viaggio e sogna, esattamente come sogna ogni adolescente  - e inizia IL VIAGGIO, chiamato letteralmente così, con l'articolo determinativo a indicare che non si tratta di un viaggio qualsiasi, perché ovviamente non è un viaggio qualsiasi, ma è IL VIAGGIO, simbolico e reale, di formazione e iniziatico. Il viaggio di conoscenza del mondo che l'eroe compie e non per reali necessità (a differenza di quanto avviene nella realtà), ma per pura sete di conoscenza ("Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza", anche se poi Dante posiziona Ulisse all'inferno per aver osato sfidare il limite posto da Dio alla conoscenza, avendo superato le Colonne d'Ercole).

Seydou e il cugino, sebbene messi in guardia dai pericoli e dal rischio di perdere la vita, non hanno la minima idea di quello che li aspetta. 

Non voglio scendere troppo nei particolari, ma il dato rilevante è che Seydou durante il viaggio si spoglia a poco a poco della sua adolescenza e diventa uomo. Come lo diventa? Ovviamente facendo delle scelte a assumendosi delle responsabilità, tra cui la più significativa, quella di intraprendere l'ultimo tratto del suo viaggio superando la prova più grande e più difficile. Non spoilero, ma dal titolo già si capisce. 

Seydou è un eroe perché nel momento in cui decide di partire (non senza aver prima espresso paure e dubbi) porta fino in fondo la sua scelta, non si arrende, non si sposta di un millimetro, affronta e supera ogni momento difficile. Il punto di possibile non ritorno accade a metà, in pieno secondo atto drammaturgico, lì dove nella narrazione classica l'eroe incontra gli ostacoli più duri, viene sottoposto alle sfide più difficili, lì dove si decide il destino dell'eroe e si capisce di che pasta è fatto. 

Le scene nella struttura di detenzione libica in mezzo ai mostri spietati sono le più feroci e violente, anche da un punto di vista psicologico; Seydou è chiamato a lottare tra due poli emotivi opposti: la vigliaccheria e il coraggio, arrendersi o andare avanti. Il mediatore lo stordisce come le sirene con il loro canto, ma lui è irremovibile, non cede. La scena è potente perché comunica il terribile dilemma interiore di Seydou. Altrettanto potente è quella in cui, buttato in mezzo ad altri corpi, attende appoggiato a una parete verdognola scrostata, fatiscente, in questo luogo disperato e violento in mezzo al nulla: la versione infernale della parete verde della sua cameretta, ormai lontana anni luce, irraggiungibile. Il nostro eroe è qui che sperimenta il sentimento più triste, ma anche tra i più belli dell'animo umano: la nostalgia. Il desiderio potente di tornare indietro e insieme la consapevolezza che non sarà possibile. Il desiderio di casa, dell'infanzia, degli affetti perduti. E infatti, come un onironauta, Seydou di notte si alza in volo e torna, torna alla sua casa, al suo paese, dalla sua mamma. 

Qui la disperazione di Seydou si fa tangibile, è probabilmente il momento più duro sotto il profilo psicologico, ma regge, anche aiutato da un uomo che lo prende sotto la sua ala protettiva perché, si intuisce, gli ricorda il figlio sedicenne. 

"Mi hai salvato la vita", gli dice infatti Seydou. 

Il viaggio prosegue tra i mostri, gli orchi, ma anche le fatine buone, gli angeli protettivi, la forza di una solidarietà che è solo favolistica. 

Io Capitano è un film bellissimo, a patto che lo si legga, appunto come, racconto epico.

Un film che si regge esclusivamente sul viaggio dell'eroe che si dibatte tra buoni e cattivi, che affronta e supera mille ostacoli.

Un film che senza la carica, lo sguardo - che passa dall'entusiasmo ingenuo alla disperazione della conoscenza -, la straordinaria interpretazione del giovane attore che interpreta il sedicenne Seydou perderebbe parecchia della sua potenza. Seydou è bello, onesto, buono, empatico, coraggioso - e coraggioso proprio perché non si arrende nonostante la paura - responsabile e soprattutto ha fede, come ogni eroe che si rispetti, nel fato, nel destino, in Allah. La sua fede/fiducia, insieme al desiderio potente, gli permetteranno di compiere il suo destino. 

Se vi aspettate un film sui migranti, sui flussi migratori, sulla complessità e durezza di una realtà sociale, avete sbagliato film. Io Capitano è un film sul VIAGGIO di un eroe al pari di quello di Ulisse nell'Odissea. Un viaggio mitologico, una favola. 

Quindi possiamo tranquillamente respingere le critiche sul fatto che racconti solo una parte della realtà, che è infinitamente e complessivamente più dura e disperata e spesso senza lieto fine dei migranti. Nei barconi si muore, le donne vengono stuprate dagli stessi compagni di viaggio e molti rimangono intrappolati in Libia a fare da schiavi, usati come manovalanza, cosa di cui il governo è perfettamente al corrente. 

Seydou alla fine guida un peschereccio, vecchio e arrugginito, ma funzionante, non un gommone. Seydou impara, si assume una responsabilità immensa, si fa uomo e invita i compagni stanchi a fare altrettanto. Seydou è Ulisse che incoraggia e motiva i compagni. 

C'è poco di realistico in tutto ciò, ma come in ogni racconto epico che si racconti, si attinge ad archetipi viscerali, profondi, dell'umanità di sempre e per questo, nella finzione, Garrone realizza un film potente e indimenticabile. Una moderna Anabasi. Seydou non torna a casa, ma trova la sua casa perché trova e conosce sé stesso e perché non c'è viaggio più importante che possiamo fare di quello dentro di noi. Alla fine è lì che dobbiamo andare, a scoprire chi siamo.


giovedì 25 gennaio 2024

La Storia (serie tv)

La Storia, serie per la Rai diretta da Francesca Archibugi, tratta dallo straordinario romanzo di Elsa Morante, è un ottimo prodotto televisivo, pur con tutti i limiti, appunto, del prodotto televisivo. Premetto che ho visto solo i primi 4 episodi e quindi al momento il mio giudizio non può che essere parziale.

Intanto è fedelissima al romanzo (e se non l'avete letto vi consiglio di farlo prima di guardare la serie), poi è ottima la scelta del cast, quasi tutti gli attori sono calati nel ruolo e recitano bene, a parte alcune eccezioni di cui dirò poi. Una menzione speciale al bimbo che interpreta Useppe di cui riesce a rimandarci lo stesso sguardo stuporoso verso il mondo, pieno di innocenza e al tempo stesso di saggezza e conoscenza, come se già sapesse molte più cose di quelle che spetterebbe a un bambino sapere. 

I punti di forza sono quelli in cui si mette in scena la quotidianità in tempo di guerra,   i momenti di solidarietà e il vivere insieme tra gli sfollati, ma anche quelli dei legami affettivi tra Useppe e Nino, Useppe e Ida, Useppe e Eppe Tondo, Useppe, Nino e Blitz.

Buone anche le scene in cui si narrano i vari eventi storici che fanno da sfondo e che determinano le vicende di Ida, Useppe e le altre persone comuni come lei, che poi, nell'opera della Morante, sono i veri protagonisti della storia e della Storia. Appaiono abbastanza didascalici, ma appunto l'intento è quello di fornire il contesto storico per poi far procedere narrativamente gli eventi che coinvolgono Ida, Useppe e gli altri. Come nel romanzo si prediligono i momenti storici più significativi: i bombardamenti, la deportazione degli Ebrei, episodi della Resistenza e dell'organizzazione dei Partigiani. Ho trovato ben ricostruita la scena in cui Ida e Useppe vanno alla stazione di Tiburtina e assistono alla partenza del treno merci che deporta gli Ebrei. È una scena volutamente straziante il cui tragico nonsense è affidato allo sguardo incredulo di Useppe che si chiede il perché della Storia e di Ida che non sa, non può rispondergli, impotente, mentre dal cielo piovono fiocchi di cenere, particolare questo che è presente anche nel libro. 

Ovviamente non ho potuto non pensare all'analogia con i TIR che trasportano gli animali al mattatoio il cui sguardo ci interroga dalle strette feritoie attraverso cui vedranno scivolare via il mondo per la prima e ultima volta. 

L'accenno agli animali vien fatto a un certo punto quando una donna Ebrea dice "ci schedano come le bestie", ma ovviamente il paragone non rileva l'ingiustizia di quanto accade agli animali, che sono bestie e quindi è naturale e giusto che abbiano un trattamento diverso rispetto agli umani, bensì è volto a narrare l'orrore di quanto accade alle persone quando sono trattate come bestie. Forse ci dovrebbe far riflettere, ma come sappiamo ancora non avviene mai abbastanza. 

I punti che finora invece ho trovato deboli sono i dialoghi politici, soprattutto quelli tra Nino e Carlo, per non parlare dell'evoluzione politica di Nino o di Carlo quando decide di unirsi ai Partigiani: assente, nel senso che non viene narrata, ma presentata come un dato di fatto in entrambe i casi. I dialoghi affidati a Carlo e a Nino per parlare delle differenze tra comunismo e anarchia sono troppo semplicistici, così come quelli affidati a Eppe Tondo che però, essendo interpretato da Elio Germano, riesce quanto meno a risultare credibile, anzi, è un bellissimo personaggio, cosa che, mi spiace dirlo, non si può dire di Lorenzo Zurzolo che interpreta Carlo Vivaldi.

Bravissima Jasmine Trinca, anche nella scena in cui viene stuprata dal soldato tedesco. Una scena complessa, violenta e piena di tutti gli orrori della guerra, compresa l'assurdità di mandare al fronte dei ragazzi giovanissimi che agiscono come uomini feroci, ma sognano la tenerezza della mamma. In Ida non c'è rancore, accetta quanto accade, ma non per arrendevolezza, bensì perché anche lei, come Useppe, è un personaggio oltre la Storia, che quasi la travalica in una consapevolezza metafisica inesprimibile a parole, ma fatta di gesti, sguardi, abbracci. Useppe e Ida sono uguali in questo e per questo, per chi conosce il romanzo, non potrà che finire in un certo modo. 

Vedremo nei prossimi episodi se la qualità si manterrà, tornerò forse a parlarne. 

Si trova su Rai Play.


venerdì 19 gennaio 2024

Julie & Julia

 

Quando guardi un film su Netflix, Prime o altre piattaforme, esce la lista dei film con contenuti simili o che potrebbero piacerti. 

Visto che l'altra sera ho guardato Hunger, mi è stato proposto Julie & Julia, spassosa e ben diretta commedia del 2009 diretta da Nora Ephron, con Maryl Streep e Amy Adams, tratta dal libro autobiografico di Julie Powell ispirato a sua volta al suo blog di grande successo in cui si cimentava nell'impresa di rifare, entro un anno, tutte le ricette del libro della famosa e realmente esistita chef statunitense Julia Child. 

La storia, come tutte le storie, ha vari livelli di lettura e qui il messaggio sotteso è il riuscire a trovare la propria strada e fare di una passione una carriera, risultato che sia Julie che Julia ottengono. Il film si snoda infatti in due diversi momenti temporali alternando la storia di Julia Child agli inizi della sua carriera, negli anni 50, e quella di Julie Powell nel periodo subito dopo il crollo delle due torri. 

Il film è spassoso e motivazionale, o almeno è tale per la maggior parte delle persone perché, essendo un film incentrato sul cucinare ha il solito enorme problema di mostrare ogni specie di animale a pezzi ritenuta commestibile (è mai possibile che in questo genere di film non si cucini mai un piatto di verdure manco per sbaglio?).

Anche qui c'è una scena terribile, resa ancor più terribile dal fatto che sia una scena realizzata apposta per far ridere, cioè con dei momenti e battute che vorrebbero suscitare ilarità. 

In pratica Julie Powell, lavorando al proposito del suo blog, arriva al punto delle ricette di Julia Child in cui deve cucinare un'aragosta viva.

La scena è anticipata diverse volte con battute sul sentirsi "assassina di aragoste" e con il fidanzato che la motiva, il tutto sempre comicamente, come se non si trattasse realmente di uccidere qualcuno, cioè usando la stessa ironia che potremmo fare noi quando buttiamo le patate nell'acqua bollente ("assassini di patate", fa ridere, in effetti). L'aragosta è trattata alla stregua di un vegetale.

Dopo queste anticipazioni arriva il grande giorno e la nostra eroina si reca al mercato a comprare delle aragoste vive. Gliele mettono in una busta e lei inorridisce, ma non per empatia o dilemma etico, bensì per il fastidio di dover fare questa cosa di ucciderle. Apre il sacchetto e vede un'aragosta che la fissa, che muove occhi, agita chele e antenne. La richiude schifata. 

A casa tenta di seguire il consiglio della Child: uccidere le aragoste piantandogli un coltello a colpo sicuro tra gli occhi. Lei però non crede di potercela fare, quindi sceglie l'altra soluzione... e sapete bene di quale soluzione si tratti: gettarle direttamente nell'acqua bollente.

Lo fa, la scena viene mostrata, ma se non altro, essendo un film girato in America dove bisogna rispettare le norme di non maltrattare gli animali sul set (sul set! Fuori le aragoste si possono tranquillamente uccidere) si vede che sono finte o forse vere ma già morte (ma sono chiaramente vere quelle delle scene precedenti in cui vengono comprate al mercato e  messe nella busta). 

Una volta gettate nell'acqua  la nostra eroina, sentendosi finalmente sollevata nell'essere riuscita a portare a termine tale impresa, si affretta a chiudere il coperchio. Il coperchio si solleva e cade a terra, lei fugge terrorizzata, ma ecco che interviene in aiuto il prode cavaliere, cioè il fidanzato, rimettendo subito il coperchio sopra al pentolone e chiudendolo con forza onde impedire ai poveri animali di fuggire dalla pentola, con tanto di espressione soddisfatta. 

La scena ha intenzioni comiche, eppure tanto ci sarebbe da dire, a cominciare dalla smaccata conferma dei ruoli di genere per cui alla fine il maschio uccide senza pietà mentre la femmina, che pure non prova chissà quale empatia con le aragoste, si impressiona nel farlo, così come si impressionerebbe nel dover schiacciare un grosso ragno o prendere a bastonate un topo. Infatti il sentimento descritto nella scena è solo uno: la repulsione. E la comicità è su questo che gioca e lavora: la repulsione di dover cucinare ciò che dal punto di vista della considerazione morale è equiparabile a un ortaggio, ma che presenta il fastidioso inconveniente di muoversi, agitarsi - mannaggia, proprio come il cane dell'esperimento di cui parlava Cartesio nel 600 che quando veniva bastonato attivava quel fastidioso guaito, ma, niente paura, si trattava solo di semplice meccanica, al pari del pendolo di un orologio che suona allo scoccare dell'ora -, inconveniente poi appunto risolto brillantemente grazie all'intervento del fidanzato e prova complessivamente superata alla grande con il successo della ricetta riuscita alla perfezione e tutti gli amici a cena che divorano con gusto le povere aragoste. 

Ora il punto qual è? Il punto è che qui non stiamo parlando di una scena comica di finzione che esaspera alcuni aspetti della realtà o che nella realtà non esiste; non stiamo parlando di Fantozzi che cade in maniera rocambolesca dagli scii e poi si rialza tutto ammaccato a rappresentare le sfighe del piccolo impiegato, né di Stanlio & Ollio che si prendono a torte in faccia. Qui stiamo parlando di quello che accade nella realtà: aragoste o altri crostacei bolliti vivi, pesci vivi affettati, quarti di manzi, maiali, polli interi ecc. massacrati nei mattatoi. Individui senzienti, non ortaggi, non vegetali. Individui di cui si ride. E il punto non è solo che si ride della sofferenza di un'aragosta, ma che si ride,  questo l'obiettivo finale, di chi prova empatia o si fa scrupoli di coscienza perché tutta la scena prende per il culo chi realmente avrebbe problemi a uccidere animali e non per semplice repulsione, ma per un pizzico di empatia che pure chi cucina e mangia animali, talvolta ha.  

In altre scene si mostra come disossare un'anatra, come riempire un pollo, teste di maiali e mucche appese al mercato, pesci ecc.

Una commedia come questa, che in una società normale sarebbe invece un horror, piace perché è rassicurante. Non mette in dubbio l'esistente, ma anzi lo conferma.

Va bene uccidere le aragoste gettandole in pentoloni di acqua bollente, va bene decapitare polli e disossare anatre, va bene tutto pur di inseguire il successo, realizzarsi, divertirsi. 

Il film è del 2009, non di decenni fa. E comunque anche oggi, come si è visto in Hunger,  gli animali nel cinema continuano a essere rappresentati come cibo, ossia sono semplicemente dei referenti assenti (dell'uso degli animali nel cinema ho parlato anche in un capitolo del mio libro). 

Attenzione: io non sono a favore della cancel culture. Io penso e rilevo il modo in cui gli animali sono raccontati nelle varie forme di produzione culturale. Lo faccio ovviamente al fine di mettere in discussione lo specismo, convinta che, solo rendendo visibili le ideologie oppressive violente ma normalizzate e finanche naturalizzate, le si possa combattere.

mercoledì 17 gennaio 2024

Hunger

 


Ieri sera ho visto Hunger, un film su Netflix, ambientato in Thailandia, che racconta la storia di una ragazza che lavora come cuoca senza pretese nel chiosco di famiglia. Viene notata dal sous-chef di uno chef famosissimo che cucina solo per gente ricchissima e potente che la convince a fare un tentativo per entrare nel suo team e in breve inizia il suo apprendistato presso questa sorta di divinità della cucina, tanto enigmatico, quanto scontroso e aggressivo (per usare un eufemismo).

Il film nelle intenzioni non è malvagio perché si filosofeggia sul Potere, sui privilegi dei ricchi, sulle sperequazioni sociali e sui vari simbolismi e sovrastrutture culturali legate al cibo che potrebbero essere riassunti nella frase "I poveri mangiano per riempirsi la pancia, di conseguenza il cibo deve soprattutto assolvere quella funzione, non importa la qualità, mentre i ricchi, che hanno soddisfatto il bisogno primordiale di avere la pancia piena, mangiano cibo speciale e costoso per sentirsi speciali", concetto questo ben rappresentato in sociologia dalla piramide di Maslow. 

Per farla breve, la protagonista, che vuole diventare speciale, insegue il successo come chef a costo di grandi sacrifici, ma poi capisce che non ne vale la pena e trova la giusta via. Anche perché comprende che l'essere speciali è poca cosa senza l'affetto e l'amore. 

Hunger, dunque, è un film incentrato sul cibo come metafora, sebbene si dichiari quasi immediatamente che appunto esistono due tipi di fame, quella dei poveri e quella dei ricchi, come abbiamo detto.

Il cibo dei ricchi come metafora del potere è una lettura scoperta e esplicita; quello dei poveri che può essere anche amore, idem. 

Ma veniamo al vero motivo per cui l'ho guardato: volevo capire se ci fosse una riflessione sul cibo animale, sul VERO costo del cibo non in termini di denaro, ma di vite, di individui unici e irripetibili. 

Ovviamente non c'è. 

Cucinano sempre e solo pesci e crostacei, che mostrano vivi, appena pescati, addirittura comprati direttamente sui pescherecci, e poi carne. 

In una scena si vede l'uccisione di un'aragosta. A me è sembrata reale. 

In un'altra si arrostisce l'intero corpo di un manzo. Poi gamberi, pesci di ogni tipo mostrati mentre si dibattono (a me sono sembrati tutti reali). 

L'unica scena davvero interessante, sebbene disgustosa, è quando servono a una tavolata di uomini ricchi e potenti della carne servita su una salsa rosso sangue a emulare proprio il sangue. Segue una carrellata in cui si vedono in primo piano queste bocche che masticano con avidità con tutta la salsa rosso sangue che gli cola dalle bocche. Bocche distorte, ghigni mostruosi, sguardi orcheschi, rumori amplificati. Nelle intenzioni registiche una bella metafora del Potere che divora il mondo, ma la critica sullo sterminio degli animali è assente perché anche la protagonista, l'eroina positiva della storia che rinuncia al successo e al potere per continuare a condurre la piccola attività di famiglia, cucina pesci e animali terrestri di ogni tipo. 

C'è un momento in cui l'occasione per riflettere sugli animali viene servita su un piatto d'argento: quando lo chef famoso accompagna dei ricchi cacciatori per cucinargli un uccello, appena ucciso (questo si vede che è finto) appartenente a una specie protetta, ma la nostra eroina ha una sola obiezione: è illegale. Lo chef famoso rilancia che non dovrebbe esserci differenza tra una gallina e un uccello protetto, peccato che tale spunto di riflessione non venga colto nel modo giusto (perché proteggiamo alcune specie e altre no? Solo perché alcune sono a rischio estinzione?), ma invece il tutto rimanga sul piano della legalità sì/legalità no. 

In conclusione, il film è un'allegoria smaccata ed esplicita sul Potere e il successo e su quanto si sia disposti a perdere per inseguirli. Peccato che non si rifletta mai sul vero costo del cibo animale, su ciò che realmente va perduta: la vita di milioni, miliardi di individui senzienti. 

Nota: amici e amiche antispeciste, vi avviso: ci vuole un bello stomaco per guardarlo, per noi alcune scene sono quasi insostenibili.